Secondo uno studio dell’Istituto Weizmann, la massa antropogenica – gli oggetti creati dall’uomo – ha superato per la prima volta nel 2020 il peso della biomassa vivente – l’insieme di animali e vegetali (Visual Capitalist, 2021).
Un dato allarmante per il pianeta, che è sicuramente alla base degli squilibri ambientali che si stanno verificando negli ultimi anni e che rientrano nel tanto grande quanto inquietante quadro del cambiamento climatico.
Se è vero che le conseguenze di questo fenomeno riguardano il mondo intero – in particolare le generazioni future – è altrettanto giusto sottolineare che forse non proprio tutte le persone hanno partecipato a questo traguardo negativo, quanto meno non nello stesso modo.
Il World Inequality Report 2022 ha infatti mostrato come il 10% della popolazione mondiale più ricca sia responsabile di quasi il 50% delle emissioni totali, mentre il 50% della popolazione mondiale più povera produca a malapena il 12% delle emissioni totali. Diciamo che se in una famosa canzone indie italiana i Pinguini Tattici Nucleari si chiedevano “per quanto reggerà la legge di Pareto”, guardando questi numeri mi verrebbe da dire con non poca amarezza “ancora un po’”.
Il precario equilibrio dell’attuale sistema produttivo perciò non riguarda solo l’ambiente ma anche la sfera sociale, dove anno dopo anno sono andate incrementando le disparità economiche e quindi sociali tra le popolazioni di Paesi diversi e all’interno di uno stesso Paese.
Recentemente mi sono imbattuto in una lettura molto interessante attraverso l’attività di ricerca che sto svolgendo con l’Università Ca’ Foscari all’interno del progetto europeo Bauhaus of the Seas Sails. Il libro “What would animals say if we asked the right questions?” della filosofa belga Vinciane Despret, indaga in maniera insolitamente ironica e leggera l’erronea concezione antropocentrica che la società ha del nostro pianeta, prendendo nuovamente il punto di vista della natura. Un concetto – quello di dare voce a tutti gli esseri viventi – che si lega al modello Zoöp sviluppato dal Het Nieuwe Instituut di Rotterdam e che mira a promuovere un’economia più rigenerativa e inclusiva.
Un esempio alla volta l’autrice mostra come la quasi intera conoscenza scientifica sugli animali che possediamo sia in realtà costruita su presupposti del tutto artificiosi, che non hanno nulla a che fare con la natura. La grande maggioranza di presunte scoperte sugli animali deriva infatti da studi di laboratorio o da situazioni create appositamente dall’uomo per scaturire una qualche reazione nell’animale, cancellando completamente, come il più grande dei paradossi, la possibilità di comportarsi in maniera naturale.
Ed ecco quindi come i lupi diventano immediatamente dei dominatori per natura, quando vengono costretti con un’esca a scegliere tra di loro chi mangerà e chi no, forzando nelle nostre teste un’idea di gerarchia che in realtà non esiste e che si sgretolerebbe subito se analizzata più dettagliatamente, vedendo come in realtà nel loro habitat naturale le comunità siano basate su princìpi di unione e collaborazione.
Anche se come esempio può sembrare fuorviante, dopo tutto che cosa c’entrano i lupi con il capitalismo, una risposta in realtà c’è, perché il meccanismo alle spalle di questo comportamento che imponiamo agli animali è in relatà un grande specchio che mette in luce il nostro comportamento come cittadini e come consumatori. Invece di usare il comportamento animale come ispirazione per costruire un rapporto più equilibrato con il pianeta, proiettiamo su di loro i nostri peggiori comportamenti.
Alla luce di queste riflessioni, diventa necessario per noi oggi ripensare al rapporto che abbiamo in primis col pianeta e di conseguenza con noi stessi e con la nostra società, per portare un cambiamento positivo in quel forse 15% di margine di impatto che la maggior parte di noi ha – se siete nel famoso 10% allora vi aspetta uno sforzo in più.
Fortunatamente la nostra società si sta muovendo in questa direzione e iniziano a fioccare i primi tentativi di un modello produttivo più responsabile e inclusivo. In una parola: equo.
Dalla rigenerazione fondata sul vino a Piacenza alla svolta “solare” della cooperativa Meru Herbs in Kenya (Altreconomia.it), i casi di successo di questa nuova mentalità che si basa sul fair trade si accumulano sempre di più in tutto il mondo.
Anche in Upskill 4.0 abbiamo avuto modo di constatare e partecipare a questo fenomeno, partendo da una formazione accessibile a diverse fasce di età (da studenti a lavoratori adulti) per arrivare a progetti veri e propri di rigenerazione “digitalizzata”, come nel caso dell’etichetta digitale per la Cooperativa Sociale Insieme a Vicenza, della nuova collection di accessori upcycled disponibili anche in realtà aumentata per la Cooperativa sociale Quid a Verona, o ancora una nuova piattaforma per gli ordini e le vendite online per la Cooperativa sociale Hortus di Mantova – per citarne solo alcuni.
Per il futuro ovviamente l’auspicio è quello di supportare sempre di più questo tipo di progetti e realtà che si fanno carico di portare avanti il cambiamento “equo”, per contribuire nel nostro piccolo allo sviluppo di un commercio più consapevole e responsabile.
Chissà se con le molte realtà simili a Upskill 4.0 presenti nel mondo e le centinaia (se non migliaia) di altre realtà attive nel fair trade si potrà effettivamente ritornare ad una più naturale collaborazione – come ci direbbero i lupi di Vinciane Despret se glielo potessimo chiedere – abbandonando quella struttura gerarchica che ci rende solo più “noiosi e abitudinari”. E chissà se il “grande gioco globale” che gestisce le nostre vite creando squilibri sempre più importanti con il suo concetto di competizione non possa lasciare spazio invece ad una più equilibrata collaborazione tra aziende e tra persone – ma questa ve la lascio come provocazione.